Dopo 24 anni di assenza, “I Vespri siciliani” di Verdi tornano al Teatro alla Scala, dal 28 gennaio al 21 febbraio, in un nuovo allestimento firmato da Hugo de Ana. Sul podio Fabio Luisi alla guida di un cast capitanato da Marina Rebeka, Piero Pretti e Luca Micheletti.
Wagner e la quadratura del cerchio
Pubblichiamo in esclusiva un estratto del recentissimo “Quella cosa priva di nome – LA QUADRATURA DEL CERCHIO”, volume “a due facce” edito da Aragno che raccoglie un saggio di Federico Capitoni (AUTORE E voce del nostro podcast “Le cose della Musica”) e una selezione da lui curata di scritti di Richard Wagner.
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onosco Federico Capitoni da molti anni, venti suppergiù. E tenendo conto che Federico appartiene alla generazione dell’80 (intendo il 1980, anno in cui è nato a Roma), bisogna ammettere che il termine ragazzo prodigio (o almeno giovane dai molti e non ordinari talenti) ben gli si adatta. A poco più di 20 anni, due lauree, già scriveva per La Repubblica e per riviste importanti, collaborava con Radio Rai per trasmissioni e l’archivio storico, poi ancora tanta radio, la critica e il giornalismo, la filosofia, la scrittura, l’insegnamento, infine la scultura. Su Wikipedia trovate tutto…
Anche i lettori e gli ascoltatori di Music Paper Capitoni lo conoscono bene: è autore e voce di un podcast fascinoso e indagatore sul mondo intorno a noi che attraversa generi e secoli musicali senza barriere e senza paura: “Le cose della musica”.
Federico nel suo autoritratto per MP si descrive così: «Sono giornalista, critico musicale, scrittore, conduttore radiofonico, filosofo, drammaturgo, scultore, musicista e – direte – un po’ bugiardo. E invece dico la verità, cercate su internet. È che l’unico modo per giustificarsi di non eccellere in alcuna cosa, è farne molte». Conoscendolo un po’ capisco cosa intende, ma, mestamente, dissento. Ascoltarlo e leggerlo per credere.
Ora che ha ormai ben 42 anni, ha già pubblicato ben otto libri affatto trascurabili, anzi. L’ultimo in ordine di tempo è il recentissimo Quella cosa priva di nome – La quadratura del cerchio, volume wagneriano “a due facce” nel vero senso della parola, dato che da una parte del libro si legge il suo saggio e girandolo dall’altra si trova una selezione da lui curata di scritti di Richard Wagner (e viceversa).
Centosessantacinque pagine, è edito da Aragno nella collana Pietre d’angolo – libri a quattro mani appunto – curata da un italianista, critico letterario e divulgatore di rango come Andrea Cortellessa.
Music Paper ne pubblica qui in esclusiva un estratto che abbiamo giudicato prezioso. Il primo capitolo introduttivo del saggio La quadratura del cerchio che precede un breve testo teatrale wagneriano “in una scena madre” di Capitoni, non nuovo pure a cimenti da librettista (ed ecco un altro talento di Federico): il semiserio S.I.A.E “Singspiel italiano artisti egocentrici”.
Ringraziando Autore ed Editore per la gentile concessione alla pubblicazione condividiamo quindi con voi alcune delle illuminanti riflessioni introduttive che Cortellessa ci offre nel presentare questo scritto: «[…] Per un media philosopher come Friedrich Kittler, senza il Gesamtkunstwerk non sarebbero concepibili neppure il progressive rock o la disco. Ma tutta la multimedialità di oggi, in fondo, viene dritta da Bayreuth. I suoi grandi testi teorici sono affetti dalla stessa ipertrofia delle opere di Wagner: momenti splendidi, e interminabili quarti d’ora (per dirla con un altro collega malevolo). Così Federico Capitoni, che tra i saggisti dell’ultima generazione è quello dalla più spiccata vocazione interdisciplinare (illuminando, di questo pensiero, quello che “è vivo” e quello che “è morto”; non senza indicare quanto di ancora-wagneriano alligni nella sperimentazione di oggi), ha pensato bene di “pescare” dagli scritti più agili e d’occasione. Faville del maglio che si rivelano piccoli gioielli. Una volta per esempio, in alternativa alla formula più vulgata (e volgare) di “arte dell’avvenire”, Wagner definisce la sua opera “quella cosa priva di nome”. Un po’ come “il sogno di una cosa” di cui parlava il giovane Marx».
Paola Molfino
La chiamiamo opera ma non sappiamo bene cos’è. Le si è dato questo nome generico perché il più semplice e comprensivo, ma la trappola dell’universalità scatta nel momento in cui si tenta la definizione. Ci si è accordati sull’idea che si tratti di un particolare tipo di teatro musicale, che risale al melodramma e che però adesso può essere qualcosa di più, ma anche di meno, del melodramma delle origini. Allora a volte si fa prima a procedere per esclusione: non è il musical; non è la commedia o la tragedia musicali; non l’operetta, che ne è il vezzeggiativo solo nel nome; nemmeno certamente il balletto… La caratteristica di quella che chiamiamo «opera lirica» è di essere una drammaturgia cantata, ossia un testo teatrale musicale, sì, ma con la parola intonata. E in più ci sono il gesto della danza, e l’azione della recitazione, e una scena da abitare… Insomma tutti gli altri generi succitati sono inclusi ma allo stesso tempo irriducibili all’opera e immeritevoli di cotal denominazione.
Ciò che per molti di noi oggi è una poetica superata all’epoca di Richard Wagner era il massimo che lo spettacolo poteva procurare, perché dentro c’era tutto. Ma quel tipo di opera pareva esser diventata una degenerazione degli alti intenti di un teatro inteso come opera d’arte perfetta, ossia un tipo di manifestazione artistica che non fosse semplicemente la combinazione di tante discipline bensì la loro sublimazione in un’unica forma non più spacchettabile una volta realizzata. Sicché accade che con Wagner vacilla lo statuto dell’opera, il dramma musicale, in sé, e in più si cerca di fondarne uno nuovo, futuribile, che in realtà così nuovo non è poiché ha le radici e una accettabile concretizzazione già nella tragedia greca. Ma le cose sono cambiate: peggiorate per via di un decadimento estetico dell’umanità; migliorate perché il progresso scientifico e culturale ha permesso all’uomo, e all’artista, di entrare in possesso di nuovi strumenti comunicativi. E allora occorre creare un tipo di “opera” – un tipo di teatro, in sostanza – degna dei tempi a venire.
E come si fa? Il wagneriano Gesamtkunstwerk, traducibile appunto come «opera d’arte totale», lungi ancora oggi dall’essere perfettamente comprensibile nella sua realizzazione più fedele proprio perché privo di una definizione univoca e inequivoca, è il prodotto di un tipo di artista anch’esso dai contorni poco definiti: un individuo singolo o un collettivo coeso di individui con la capacità di realizzare il massimo connubio tra le varie arti che si compenetrano al punto da diluire completamente l’individualità rendendola irrintracciabile.
Wagner si interrogò tutta la vita sulla delineazione del dramma musicale – almeno di quello che intendeva lui – dedicandovi pagine e pagine di saggi, senza giungere in realtà a una conclusione perfettamente incorniciata e soddisfacente. Alla fine, ciò che meglio descrive la sua idea di teatro musicale è proprio la sua produzione drammatica, di cui possiamo essere più che contenti. Tuttavia la sua esuberanza saggistica resta importante non soltanto perché ricca di idee sulla propria concezione dell’opera d’arte, ma perché contiene anche numerosi spunti di riflessione sulla musica e il teatro in generale, nonché sul loro destino di arti unite. Un qualche avvenire l’opera pensata da Wagner lo ha avuto e forse non è così distante da ciò che il suo escogitatore aveva elaborato. Ma, appunto, l’avvenire è in divenire, e l’urgenza di Wagner si ripropone in ogni epoca, così anche oggi l’artista si domanda come debba essere l’opera d’arte del futuro, ossia del presente in cammino.
La stessa opera wagneriana è in divenire: da Le fate a Parsifal era cambiato il suo modo di concepire e scrivere il teatro musicale; dalle prime elaborazioni del suo pensiero alle ultime pagine ci sono altrettante differenze. La scrittura saggistica di Wagner è analoga a quella sua musicale: prolissità estrema, temi che tornano con frequenza (Leitmotive concettuali), linguaggio pomposo, ingombranti riferimenti storico-mitologici. E anche, però: una densità intellettuale, una pienezza di idee, una ricchezza terminologica, una bellezza della lingua, che certamente non tutti i compositori padroneggiano. Nei suoi voluminosi scritti talvolta si ripete estenuantemente, talvolta sembra dire cose diverse, in conflitto. Questi ritorni e questi ripensamenti avvengono quando si scrive tanto e lungamente; è normale che si cambi idea, che si comprenda qualcosa, che ci si scordi di altro e quindi ci si contraddica anche, soprattutto se la propria esperienza artistica e intellettuale ha portato a imprevedibili maturazioni.
Al netto di questo, non si può però non notare la coerenza tra il pensiero di unicità e totalità dell’opera d’arte propugnato nei suoi scritti e i suoi lavori di operista. L’idea di un’universalità dell’opera passa anche per i soggetti trattati nel suo teatro. Il mito si presta a significati simbolici eterni, archetipici, primitivi e dunque universali. Costruire un’opera collegando tutte le manifestazioni artistiche possibili per veicolare quei significati vuol dire compiere il processo di astrazione (assolutizzazione) anelato da Wagner. Ecco il sacro.
L’unità è sempre presente. Anche le melodie diverse irradiano da un’idea principale, la loro concatenazione esibisce un nucleo unitario. Tutta la frammentazione, la pluralità necessaria alla percezione, ha sempre un Uno eterno cui fa capo. C’è un pensiero dell’Uno che si manifesta nel tutto dietro la concezione wagneriana dell’arte e – particolarmente – del suo teatro. Mai come in questo caso, concretamente, il vero è l’intero. Nella «melodia infinita» (perenne divenire) e nell’idea di convergenza nell’unità, l’infinito e il tutto coincidono, come nella filosofia di Hegel.
Wagner fu già di per sé stesso “uomo totale” nel campo teatrale: compositore, direttore d’orchestra, drammaturgo, pensatore di cose musicali, quindi critico e filosofo della musica. Un tipo di filosofia epica, la sua, fatta di artisti-eroi.
Nonostante questa compattezza di propositi e comportamenti, però, quel che maggiormente abbiamo ereditato come particolarmente riuscito e rivoluzionario nel contributo di Wagner all’arte in generale è la dimensione musicale. Inevitabilmente la sua statura di musicista prevale e quindi, forse proprio perché la musica è pensata per il teatro e non in termini autonomi, è il suono wagneriano – comprensivo di certe soluzioni melodico-armoniche – a spiegare la sua arte. Sebbene, per esempio, la concezione dell’opera d’arte totale wagneriana abbia solo apparentemente a che fare col cinema (una delle espressioni artistiche in cui – equivocamente – più sono stati riconosciuti i connotati della sua intentio) e rimanga invece fortemente aggrappata all’idea dello spettacolo dal vivo, il comportamento della sua musica è, a parlarne oggi, cinematografico. Nei preludi orchestrali (Vorspiele) di Wagner, non a caso, ci sono i germi di quella che sarà la musica per film; di quel modo – sempre narrativo – di orchestrare e procedere. In Wagner tutto è teatro, scena, racconto in movimento; ergo, musicalmente, cinema. La sua musica costituisce sempre una possibilità scenica, ossia una quarta dimensione, quella della colonna sonora, appunto un ulteriore elemento architettonico ed edile, un’incastellatura fondamentale e ineluttabile. Il motivo ricorrente non è soltanto una strategia mnemonica, di puntellamento narrativo e di identificazione di personaggi e situazioni, ma anche estetico. Il Leitmotiv– personificazione di idee, come spiega bene Liszt – conferisce a qualunque elemento quel primo piano in movimento che è squisitamente cinematografico, non teatrale; un dettaglio essenziale che permette non soltanto il riconoscimento, ma proprio un riempimento di senso, una poesia di musica, e non per musica, che si dà cioè anche senza l’ausilio del testo.
Al di là degli esiti, il compito resta immane, quasi divino, ed è più ampio dell’ambito eminentemente musicale, cioè bisogna far stare insieme le cose secondo la nozione più radicale di composizione: con-porre. Un’opera si compone procurando un’unità che abbia la solidità e la funzionalità dell’impalcatura, la tridimensionalità e i volumi della scultura, la gamma di colori della pittura, l’espressione del movimento rintracciabile in musica e gesto, il portato immaginifico della parola. Per mettere in relazione le discipline si deve farle innamorare: l’artista è Eros; l’amore è l’arte. Anche perché a ben guardare si somigliano un po’ tutte, per via di un’essenza condivisa. Se i linguaggi diversi (ri)trovano un comune idioma (il teatro, evidentemente), se quindi possiamo far sì che questa summa diventi un tutto e quindi espressione somma, avremo il dramma come «opera d’arte più perfetta».
© 2022 Nino Aragno Editore