Dopo 24 anni di assenza, “I Vespri siciliani” di Verdi tornano al Teatro alla Scala, dal 28 gennaio al 21 febbraio, in un nuovo allestimento firmato da Hugo de Ana. Sul podio Fabio Luisi alla guida di un cast capitanato da Marina Rebeka, Piero Pretti e Luca Micheletti.
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Gregorio Moppi
Quel poltrone di Rossini
C
he poltrone, Rossini. Un uomo che, anziché scrivere, si era messo all’ingrasso. D’altronde cosa si poteva pretendere da un italiano, tanto più se reazionario? Già Stendhal, nella Vita di Rossini, lo descrive ai tempi del Signor Bruschino come un pigro inguaribile. A un certo punto ce lo mostra nel letto a comporre: un foglio zeppo di note gli cade a terra e, per evitare la fatica di raccoglierlo, riscrive ex novo il pezzo.
Quando nel 1823 uscì il libro di Stendhal nessuno avrebbe mai immaginato che presto Rossini avrebbe detto addio al teatro. Già, però, le dicerie sulla pigrizia del compositore – «giove fannullone» che detestava affaticarsi – avevano preso a diffondersi per tutta Europa.
Soprattutto la stampa francese lo punzecchiava senza requie, sia durante il suo impegno alla direzione del Théâtre-Italien a Parigi sia nei successivi decenni di silenzio creativo. «L’illustre maestro s’è lasciato interamente soggiogare dalla sua natura italiana e da quella molle apatia alla quale s’abbandonano tanto volentieri la ricchezza, la cinquantina e l’obesità», poiché «le dolcezze del far niente hanno la meglio sul desiderio di disperdere i rivali e ottenere nuovi trionfi», lamentava nel 1840 Eugène Guinet sul Siècle.
Ma prima ancora, nel suo periodo al Théâtre-Italien, non c’era giornale liberale che non ne biasimasse l’indolenza e l’inettitudine manageriale: ritenendolo la lunga mano degli invisi Borbone, se la prendevano con lui per attaccare il trono. D’altronde, Rossini era stato nominato da Carlo X anche “premier compositeur du roi” e “inspecteur général du chant”, e nel 1829 gli era assegnato un vitalizio. Che gli fu tolto da Luigi Filippo: perciò Rossini fece causa e la vinse.
Una sentenza letta in maniera differente a seconda delle testate. Le filoborboniche trovarono giusto che il compositore potesse giovarsi ancora della pensione concessa da un sovrano legittimo, alle altre pareva invece uno sperpero di denaro pubblico e un affronto alla miseria di chi davvero aveva servito la nazione, tipo i reduci delle guerre napoleoniche o le loro vedove.
Comunque, a quella data, Rossini aveva ormai tirato i remi in barca. Tutti si stupivano che la sua creatività forsennata fosse cessata così, all’improvviso. E, si ripeteva ovunque, è immorale non lavorare, tanto più se uno possiede un simile talento. Tuttavia a metà anni Trenta i gazzettisti che gli erano favorevoli ne spiegavano il silenzio come l’effetto di un’epoca più placida. Rossini aveva scritto tanto fino alle soglie del 1830, quando l’Europa era turbolenta (turbolenza penetrata nella sua musica, a detta loro) mentre adesso, durante la benevola monarchia costituzionale di Luigi Filippo, pure lui si era placato.
Viceversa Heinrich Heine, nelle cronache per il periodico viennese Allgemeine Theater-Revue stese nel 1837, opponeva l’ozio di Rossini all’attivismo di Meyerbeer, secondo l’equazione liberalismo meyerbeeriano (riflesso nelle sue opere dal protagonismo delle masse e dalla preminenza dell’armonia) contro spirito restaurativo rossiniano (espresso nel trionfo della melodia e dei sentimenti privati).
leggi tutto…Il primo Don Giovanni
Il primo Don Giovanni in musica, ben prima di Mozart. È il 17 febbraio 1669, e a Roma, nel Teatro Colonna, si è dato appuntamento chi conta in città. Porporati, certo, visto che lo spettacolo è promosso dai cardinali Flavio Chigi e Giacomo Rospigliosi, ma pure aristocratici tipo Lorenzo Onofrio Colonna e Agostino Chigi, altri sponsor dell’evento. Solo due donne in sala, la regina senza più trono Cristina di Svezia e, in incognito, la moglie del Colonna, Maria Mancini. Nemmeno uno sul palco, sostituite da castrati. Occasione per un tale raduno è appunto un Don Giovanni, che però qui non si chiama così. Si intitola “L’empio punito”…
La musica è queer?
Possibile che la musica possa essere gendered? Possibile che si manifesti come maschio, femmina, gay, etero, fluida, eccetera, eccetera? E nel caso esprima una qualche identità sessuale e di genere, chi gliel’ha fornita? È il compositore che l’ha scritta deliberatamente così? È l’ascoltatore (o il critico) che ce la vuole scovare? O sono le partiture stesse a possederla, quale proprietà congenita?
Musicisti e porporati, protetti e protettori nella Bologna del ’600
Comporre, dipingere, scolpire, scrivere sono mestieri d’artigianato. Ciò che si fa serve a qualcuno, e si lavora per guadagnarsi la pagnotta. Così come un falegname fabbrica un tavolo non per ghiribizzo creativo ma perché gli è stato commissionato, allo stesso modo un compositore soddisfa le richieste di musica che gli pervengono e nelle dediche non può che rendere omaggio a chi lo paga. Il rapporto tra Curia e compositori nella Bologna del Seicento.
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Buon segno se un pazzo suona il piano, meno se canta. Le cartelle cliniche degli internati nei manicomi vittoriani rivelano come, quando e con quali intenti si faceva musica in quegli istituti di reclusione sanitaria. A fornircene testimonianza sono pure le relazioni annuali redatte da apposite commissioni di vigilanza e quelle pubblicate a stampa dalle direzioni dei manicomi.
Non diventi un mestiere: compositrici in Italia tra ’500 e ’600
Ciò che i manuali di storia della musica ancora non dicono è che di donne compositrici ce ne sono state sempre. Casi ben documentati sono quelli dell’Italia nella prima età moderna, tra corti e chiostri.