Dopo 24 anni di assenza, “I Vespri siciliani” di Verdi tornano al Teatro alla Scala, dal 28 gennaio al 21 febbraio, in un nuovo allestimento firmato da Hugo de Ana. Sul podio Fabio Luisi alla guida di un cast capitanato da Marina Rebeka, Piero Pretti e Luca Micheletti.
SPETTACOLI
Per Don Carlo grandi voci la dedizione di Valčuha e un’enigmatica regia
Napoli – Teatro di San Carlo | Verdi, Don Carlo, Guth (reg.), Valčuha (dir.), Polenzani, Pérez, Garanča,Tézier, Pertusi, Tsymbalyuk, Gómez
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a tempo non si sentiva una compagnia di canto così buona come quella scritturata dal Teatro di San Carlo di Napoli per il Don Carlo inaugurale, nella versione in cinque atti.
La regia di Claus Guth ha curato bene il gioco degli attori: ecco Don Carlo, schiacciato da turbamenti e incertezze, timori e rimpianti, sovente accasciato a terra sotto il peso dell’amore deluso: il tenore Matthew Polenzani di per sé non ha voce bellissima, ma flessibile e adeguata a rendere le sfumature che infondono al personaggio vita vera. Il soprano Allyn Pérez , con la sua bella voce morbida sa cogliere di Elisabetta la tenerezza e l’energia morale, il dolore della solitudine e l’eroica fedeltà al dovere di sposa.
Splendida la principessa Eboli di Elīna Garanča: sensuale, elegantissima, tormentata, passa da slanci a intime morbidezze con una voce ben timbrata, dal suono rotondo anche negli acuti. Magistrale per eleganza, calore umano, tranquillità interiore e affetto è parso il Marchese di Posa del baritono Ludovic Tézier: voce calda anche lui, dizione perfetta, liberale franchezza nei gesti e nei movimenti. Infine, da manuale è parso il Filippo II di Michele Pertusi: la compresenza di solennità dolente e autoritarismo regale impone al cantante di sapersi districare in quel complesso psicologico con una abilità che, grazie a Pertusi, ha convinto in ogni scena.
Difficile, invece giudicare il Grande Inquisitore di Aleksander Tsymbalyuk, nonagenario e cieco, perché il regista l’ha trasformato in un giovane nerovestito con occhiali da vista, una sorta di ministro delle finanze, o della giustizia, che viene a confabulare col Re, chiedendogli di far assassinare il Marchese di Posa, e incoraggiandolo nel contempo a far fuori anche suo figlio. Ridotta visivamente a un dialogo quotidiano, con Filippo che, spossato dall’ingombrante interlocutore, si sdraia sul letto, la scena, concepita da Verdi come lo scontro tra due giganti del potere, inevitabilmente si affloscia.
Davanti alla regia di Guth è fuori luogo sia inneggiare che deprecare. Meglio cercar di capire, ma non è facile, perché lo spettacolo è spaccato in due e notevolmente enigmatico. L’idea generale è quella, giustissima, di rendere l’atmosfera cupa della corte spagnola, oppressa dal peso di una religione fanatica: le donne velate di nero ne sono l’emblema, quelle vestite di bianco, come fantasmi in abito da sposa, ricordano, sul cupo fondale, il sogno infranto dello sposalizio impedito tra i due giovani.
Così, i primi due atti procedono veritieri, credibili, e con un’azione in grado di esaltare la musica di Verdi, anche se non manca un disturbo: la presenza continua di un nano, “giullare” di corte, impersonato dall’acrobatico , guizzante, bravissimo attore Fabián Augusto Gómez, ometto barbuto in veste ora di buffone, ora di Cupido con le ali, poi monaco incappucciato, guerriero con l’ascia, sposa col velo bianco, tuttofare che saltella, spargendo manciate di petali, offre oggetti ai personaggi, gira loro intorno, mettendosi sempre tra i piedi, non senza il rischio di farli inciampare. Il suo significato, oltre la probabile ascendenza shakespeariana, non è possibile indovinare. La sua funzione: distrarre in pratica l’attenzione del pubblico dall’azione drammatica.
La quale si svolge quasi sempre nella scena unica di Etienne Pluss: un coro conventuale, con una serie di stalli scolpiti che va benissimo per rappresentare il convento di San Giusto, ma diventa improbabile dal terzo atto in poi, quando accoglie tutto il resto: la scena coram populo dell’Autodafè, con la folla incorniciata negli stalli dei frati; quella del giardino notturno; lo studio di Filippo II trasformato in una camera da letto in cui dormono Eboli, Don Carlo per terra col giullare, e compare la figura Elisabetta; infine, anche la prigione di Carlo, presente Filippo.
Tutto naturalmente incomprensibile e inscatolato nella scena unica, con tanti saluti per quella dialettica di ambienti e atmosfere diverse che è l’anima stessa del teatro verdiano: finché nell’ultimo atto si tira il fiato quando il trascendentale addio dei due amanti avviene solo tra quattro mura nude.
Se Guth ha voluto rischiare, applicando il gioco critico del decostruzionismo a una delle opere più saldamente “costruite” di tutto il teatro occidentale, ben consapevole di cosa stava trattando è parso invece il direttore Juraj Valčuha che ha organizzato con dedizione e sensibilità una drammaturgia musicale tesa, variata, scavando nella psicologia dei personaggi, elastico nelle effusioni melodiche, attento alle finezze cameristiche della strumentazione ben resa dall’Orchestra del San Carlo.
Grazie a lui l’ascolto fila via soprattutto nei primi due atti, perché la regia non si mette di traverso e asseconda la potenza energetica della musica, che si abbassa putroppo quando lo spettacolo va per conto suo.
Alla replica cui ho assistito, assente il regista, gli interpreti sono stati molto festeggiati, con ovazioni e lunghi applausi.
Foto: © Luciano Romano / Teatro di San Carlo
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