Dopo 24 anni di assenza, “I Vespri siciliani” di Verdi tornano al Teatro alla Scala, dal 28 gennaio al 21 febbraio, in un nuovo allestimento firmato da Hugo de Ana. Sul podio Fabio Luisi alla guida di un cast capitanato da Marina Rebeka, Piero Pretti e Luca Micheletti.
Pavarotti era mio padre. Ed era un grande tenore
Cristina Pavarotti, figlia secondogenita del celebre tenore modenese, racconta a Music Paper il suo impegno per custodire e diffondere la memoria del padre. andando oltre il personaggio e guardando da vicino l’artista, sensazionale e generoso. da alcuni mesi il nome di “Big Luciano” campeggia anche sulle stelle della “Walk of Fame” di Hollywood. Ma ora tocca all’Italia non dimenticare il cantante e l’interprete che è stato una star fra le più luminose della storia dell’opera.
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el mondo della lirica «dove ogni dramma è un falso» Luciano Pavarotti è stato una stella di prima grandezza. Il suo nome è legato a interpretazioni che hanno fatto la storia del teatro musicale. Ruoli come quello di Rodolfo nella Bohème, Nemorino nell’Elisir d’amore. Titoli come Rigoletto, Lucia di Lammermoor, Un ballo in maschera, Turandot, Trovatore, Tosca, Luisa Miller, La Gioconda, Aida, Ernani, La figlia del reggimento, I Puritani, La Favorita, Capuleti e Montecchi…
Sì, perché il nostro Big Luciano – scomparso a Modena ormai quindici anni fa, il 6 settembre 2007, a 72 anni – ha scritto un capitolo fondamentale della storia della lirica. Idolo dei palcoscenici internazionali più prestigiosi, ma non solo. Ha diffuso nel mondo intero, grazie alla sua popolarità trasversale, l’amore per il melodramma, patrimonio culturale fondante del nostro Paese.
A tal punto che da alcuni mesi il suo nome campeggia anche sulla Walk of Fame di Hollywood, dove il 24 agosto scorso è stata posata una Stella dedicata a lui. Alla cerimonia era presente James Conlon, direttore musicale della Los Angeles Opera, che con Pavarotti ebbe una lunga collaborazione artistica e che in quell’occasione ha dichiarato: «La sua incredibile celebrità si è diffusa in tutto il pianeta, ben oltre i confini del teatro d’opera. Nel suo percorso per affermarsi a livello internazionale, è uscito dagli schemi in modo pionieristico».
Un modo e uno stile che, forse, hanno contribuito più a far crescere la popolarità del personaggio Pavarotti che a creare un interesse autentico e vero nei confronti della personalità artistica e musicale del tenore Pavarotti.
È quanto emerge anche da una lunga conversazione con Cristina Pavarotti, secondogenita del tenore (che ebbe tre figlie – Lorenza, Cristina e Giuliana – dalla prima moglie Adua Veroni e poi- a 68 anni – una figlia, Alice, dal secondo matrimonio con Nicoletta Mantovani), che sin dalla sua laurea al Dams si è occupata di direzione artistica e di teatro musicale, come regista e librettista e che da qualche anno segue la riorganizzazione dell’Archivio Veroni-Pavarotti.
Cristina, quel giorno al 7065 di Hollywood Boulevard, aveva confessato con emozione: «È un grande onore rappresentare mio padre in questa bellissima occasione e non so dirvi quanto desidererei che fosse qui con me. Se penso a lui, al valore e alla quantità delle cose che ha realizzato, alle strade che ha aperto e alle tante emozioni date e ricevute, provo ancora oggi un senso di vertigine».
E ora a Music Paper racconta non solo il senso delle celebrazioni tenute nella metropoli californiana sotto il titolo di “Luciano Pavarotti, la Stella”, ma soprattutto il suo impegno per custodire e diffondere la memoria “musicale” e artistica del padre.
Il suo è un racconto ricco di particolari che potranno contribuire a una divulgazione storica più approfondita del cantante e dell’artista, tante volte sovrastato dal personaggio.
In questi mesi si sono tenuti eventi e iniziative artistiche mirati a mantenere viva la memoria di suo padre. Quale è stata la motivazione che ha dato il via a queste celebrazioni? Sappiamo che non si fermeranno qui. Che cos’altro è in programma?
«Tutto è nato da una motivazione estemporanea e istintiva di Paolo Rossi Pisu, della Genoma Film Production, il quale, constatando che ancora non esisteva una stella dedicata a mio padre, ha preso l’iniziativa, sincerandosi che l’idea fosse gradita a noi eredi, e avere quindi il nostro consenso. Cinzia Salvioli, fondatrice della Albedo Production, mi ha contattato. La conoscevo perché ha lavorato nel mondo della lirica dagli anni ’80 e sapevo bene come si muoveva. Ed è arrivato poi il sostegno del Ministero della Cultura-Direzione Generale Cinema, della Regione Emilia Romagna, dei Comuni di Modena e Pesaro e del Rossini Opera Festival.
Mi ha fatto molto piacere perché si tratta di un riconoscimento che si aggiunge ai tanti già ricevuti da mio padre, è vero, ma questa stella è anche visibile a tutti. Tra l’altro, constatando quanto sia complesso avvicinare i giovani alla cultura alta e quanto sia necessario costruire legami aggiungendo tasselli alla memoria familiare e collettiva, ho trovato l’idea ancora più interessante.
Da qui nasce l’idea di usare questa occasione per creare un momento di vera festa e vero ricordo legati a contenuti specifici: con testimonianze diverse dalle tante che solitamente vengono proposte, proposte grazie al lavoro di archiviazione e digitalizzazione intrapreso da mia madre, e che io sto proseguendo».
Ricostruire quarantatré anni di carriera deve essere un lavoro molto articolato e complesso…
«Su mio padre sono state promosse tante iniziative, non ultima un recente documentario. Tuttavia, fin dall’inizio ci ha guidato l’idea di focalizzare il nostro lavoro sull’Italia perché la ricostruzione storica della carriera di mio padre è stata fatta molto più spesso dai paesi anglosassoni. Paradossalmente, sono più conosciute più le sue presenze al Covent Garden di quelle al Teatro alla Scala».
E a questo proposito… quanto è viva davvero oggi la memoria di Luciano Pavarotti?
«Molto viva, anche se il personaggio prevale sul cantante e sulla curiosità di scoprire e conoscere meglio l’artista, il tenore. Sicuramente è una memoria più controversa che in altri paesi, proprio perché qui la spettacolarità del personaggio si è sovrapposta alla storia artistica. Non mi risulta che in Italia ci siano studi su Luciano Pavarotti come ce ne sono invece su altri interpreti del suo periodo.
Forse dirò una cosa poco carina ma… rispetto all’Italia, il resto del mondo non si dimentica di Pavarotti cantante e interprete e del ruolo che ha avuto nella storia della lirica. Adesso è importante preservare questo aspetto. E nel nostro archivio fortunatamente abbiamo tanti documenti audio e video».
Quali aspetti della personalità di suo padre possono essere considerati un esempio da seguire, nel modo di essere artisti e di vivere questo impegno fino in fondo?
«Per molti anni sono stata testimone della sua carriera. Ho iniziato ad andare a teatro all’età di cinque anni (Cristina è nata nel 1964 n.d.r) e ho avuto la fortuna di vedere dal vivo un’intera generazione di cantanti eccezionale, che condivideva gli stessi valori di mio padre. Credo che le cose da far conoscere e tramandare siano la disciplina, la dedizione assoluta al canto, allo studio, alla tecnica.
Quel saper prendersi il tempo necessario per lo studio – oggi appena si scopre un talento viene immediatamente lanciato nella carriera – e non dare mai per scontati i presupposti tecnici. Mio padre faceva i vocalizzi tutti i giorni e dedicava tanto tempo allo studio della tecnica. La parte espressiva veniva dopo.
Quel che rende difficile l’arte del canto, la sua straordinaria magia, non può prescindere da tutto questo. Questa umiltà musicale e interpretativa credo sia fondamentale. Sono valori che mio padre ha sempre avuto. Anche quando lo vedevo insegnare ai suoi allievi richiedeva prima lo studio tecnico e dopo passava all’aspetto interpretativo».
Teneva molto ai giovani cantanti, vero?
«Moltissimo. Non ha insegnato in modo sistematico perché era sempre molto impegnato, ma lo ha fatto ogni volta che ha potuto. Aveva anche molta voglia di condividere con i giovani la sua passione. All’Opera di Philadelphia istituì un concorso per giovani cantanti e dopo questa iniziativa ha organizzato casting in ogni luogo dove si recasse per lavoro.
Negli ultimi anni, fino a quando è stato costretto a fermarsi a causa della malattia, ha avuto allievi e ha fatto audizioni a grandissimi talenti. Uno fra tutti, Juan Diego Flórez. Lui venne a casa nostra a Pesaro e, dopo averlo ascoltato, mio padre gli disse con tono entusiastico: “Ragazzo, vai!”. E come lui tantissimi altri».
Dopo la stella sulla Walk of Fame di Hollywood la scorsa estate, in ottobre il cortometraggio “Luciano Pavarotti, the Star“, presentato anche alla Festa del Cinema di Roma. Cosa racconta di Pavarotti questa pellicola?
«È un filmato molto breve (foto in alto) che abbiamo deciso di usare come sigla delle celebrazioni intorno alla posa della Stella sulla Walk of Fame. L’idea era quella di mettere nostro padre in dialogo con altri artisti, utilizzando immagini in cui si potessero cogliere la sua attività e personalità artistica. Per la realizzazione mi sono rivolta a Gianluigi Toccafondo, pittore, illustratore e regista.
Gli ho inviato materiale di repertorio, audio e video, dal quale ha saputo trarre un lavoro davvero suggestivo, e del quale sono particolarmente estasiata. Si colgono diverse sfaccettature della espressività dell’artista Pavarotti e la sua capacità di comunicare e interagire con il pubblico e i giovani musicisti. Tutte le immagini sono trattate pittoricamente… c’è tanto lavoro dietro a un minuto e mezzo di video”.
Ci sono altre testimonianze audiovisive italiane mai trasmesse prima nel Stati Uniti. Penso alla Messa da Requiem di Verdi diretta da Abbado, presentata a Los Angeles e riproposta anche da Rai Cultura in prima serata su Rai5. Come mai questa scelta?
«Mio padre aveva interpretato per la prima volta la Messa da Requiem di Verdi nel 1967 al Teatro alla Scala, sotto la direzione di Herber von Karajan, e quella rimane l’edizione di riferimento. Tuttavia, da parte mia c’è stata la volontà di recuperare altre prove e offrire una testimonianza diversa.
Il Requiem del 1970 con Abbado è stato restaurato dalla Cineteca di Bologna, un recupero che mi sta molto a cuore. Registrato nel 1970 nella Basilica di Santa Maria Sopra Minerva, a Roma, aveva tra i protagonisti, oltre a papà, Renata Scotto, Marilyn Horne, Nicolai Ghiaurov con l’Orchestra Sinfonica di Roma della Rai diretta da Claudio Abbado e i Cori di Milano e Roma della Rai».
Qual è la differenza più eclatante dell’edizione di Karajan rispetto a quella di Abbado?
«Sicuramente la direzione. Quella di Abbado tira fuori altri colori rispetto all’edizione del ’67 con Karajan. Secondo me, restituisce una diversa tensione dal vivo. Io amo molto le testimonianze meno perfette, magari, ma che danno la sensazione di farti sentire lì presente.
Quella di Karajan – senz’altro bellissima, perfetta – fu registrata infatti senza pubblico: io l’adoro e forse è la prova di cui mio padre andava più fiero in assoluto… In un’ intervista che ho rivisto di recente sostiene che la Messa da Requiem con Karajan è stata la sfida più grande della sua vita. Eppure, in quella diretta da Abbado si percepisce maggiormente la tensione e l’emozione della performance. È una registrazione fantastica, che volevo far vedere e conoscere a tutti».
E poi c’è anche un recital molto particolare…
«Sì, un’altra testimonianza che ho voluto diffondere è un recital del 1983, con brani forse meno spettacolari rispetto a quelli che normalmente vengono ascoltati. Il programma mette in evidenza le qualità espressive e interpretative di mio padre, non il suo virtuosismo al quale non gradiva molto essere associato.
Si tratta di un vecchio video che crea in chi lo guarda un senso di vicinanza e la sensazione della fruizione live. Una selezione di brani dall’ultimo concerto da solista che mio padre tenne al Teatro alla Scala nel 1983 accompagnato al pianoforte da Leone Magiera: Già il Sole dal Gange di Alessandro Scarlatti, l’Ave Maria di Franz Schubert, La Serenata e Non t’amo più di Francesco Paolo Tosti e Quando le sere al placido da Luisa Miller…
Se dipendesse da lei, quale altra iniziativa metterebbe in campo o vorrebbe che si realizzasse soprattutto in Italia per ricordare la grandezza di suo padre e il contributo che ha dato al mondo del teatro musicale?
«La risposta è difficile. Si potrebbe pensare a un lavoro di studio per un progetto editoriale. La sua carriera è stata eccezionale e il suo personaggio ha travalicato il mondo dell’opera tanto che io ho la percezione che “Pavarotti” invece sia un po’ assente nel mondo artistico, che è il mondo che gli appartiene. Sento il bisogno di rimetterlo lì al centro e sarebbe interessante se la storia di quel mondo – e dei protagonisti, come mio padre, che lo hanno caratterizzato – si provasse a ricostruire attraverso le tante testimonianze audiovisive esistenti. Penserei a un documentario realizzato su ricerche approfondite, e con la voglia di raccontare la sua storia musicale.
A questo aggiungo che bisognerebbe farlo riascoltare di più e più spesso e non sempre nei soliti titoli. È vero che alcune opere sono dei capisaldi della sua carriera, ma è anche vero che ne ha cantate tante altre. È difficile sentirlo in Lucia di Lammermoor, Luisa Miller o in Madama Butterfly di cui esiste una incisione secondo me meravigliosa, eppure nessuno mai lo cita come interprete di Pinkerton. Quando si parla di Pavarotti spesso ci si sofferma sugli anni Settanta e Ottanta che alcuni sostengono essere stati i migliori. Io credo, invece, che indagando più a fondo la sua storia si scoprirebbe molto più l’immenso artista quale è stato».
Ci dica allora: c’è un’opera fra quelle interpretate da suo padre che lei ama più di altre?
«In realtà no. Può sembrare strano, ma non ne ho una preferita. Mi piacciono tutte. Perché ognuna mette in luce una diversa sfumatura d’interprete di papà».
Foto: in cover Cristina Pavarotti con il padre Luciano a Los Angeles nel settembre 1975; nel testo Cristina, Lorenza, Luciano e Giuliana Pavarotti al 30° Anniversario dal debutto al Teatro Valli di Reggio Emilia nell’aprile 1991 © Alfredo Anceschi; Cristina Pavarotti sulla Walk of Fame di Hollywood il 24 agosto 2022; Giuliana, Luciano e Cristina Pavarotti a New York nell’aprile 1991 © Judith Kovacs; Renato Cesari, Mirella Freni, Giuliana, Luciano e Cristina Pavarotti, Giovanni Foiani, Nino Carta a una prova de La Bohème al Teatro Campoamor di Oviedo nel settembre 1972.