Il ROF è pronto a partire. Dal 9 al 21 agosto, a Pesaro, due nuove produzioni (“Le Comte Ory” e “Otello”), la ripresa de “La Gazzetta”, il consueto “Viaggio a Reims” dell’Accademia Rossiniana, quattro concerti lirico-sinfonici, due concerti di belcanto, la sezione “Rossinimania”. E un Gala per celebrare i 40 anni di attività al ROF di Pier Luigi Pizzi.
INTERVISTE
Ottavio Dantone
emozioni senza tempo
IL LEADER DELL’ACCADEMIA BIZANTINA INAUGURA IL FESTIVAL MONTEVERDI E TORNA AL RAVENNA FESTIVAL. TANTI IMPEGNI LIVE E IN DISCO (DA HÄNDEL A BEETHOVEN) E UN SOLO INTENTO: AVVICINARE IL PUBBLICO DI OGGI ALLA MUSICA DEL PASSATO
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traordinario clavicembalista e direttore, Ottavio Dantone dal 1996 è il vulcanico leader della Accademia Bizantina, uno fra gli ensemble specializzati nella prassi storicamente informata che riscuote maggior successo di pubblico e critica a livello internazionale. Oltre 25 anni di grande musica, spaziando con disinvoltura da Bach a Schumann, da Frescobaldi a Beethoven, da Vivaldi a Mendelssohn. Da sempre la sua mission è stata quella di avvicinare il pubblico di oggi al repertorio del passato, puntando a emozionare l’ascoltatore. Con lui ogni volta c’è una storia da narrare, una musica da vivere, una nuova atmosfera da scoprire. Conteso dai maggiori festival italiani ed europei, è stato di recente nominato Musical Director dell’Innsbrucker Festwochen der Alten Musik. Quest’estate, in Italia, sarà impegnato fra Cremona e Ravenna, preparando nuovi progetti discografici, mentre è appena uscita l’incisione del Serse di Händel per la HDB Sonus, etichetta nata in collaborazione con l’Accademia Bizantina.
Con Il ritorno di Ulisse in patria (1640), quasi ricalcando le gesta dell’eroe greco ‘cantate’ dal libretto di Badoaro, Dantone ritorna a Cremona, da cui mancava dal 2004. Grande attesa del pubblico del Teatro Ponchielli per l’inaugurazione del Festival Monteverdi, il 17 giugno: il titolo monteverdiano sarà proposto seguendo l’edizione critica di Bernardo Ticci e in un nuovo allestimento firmato da Luigi De Angelis, con i costumi e la drammaturgia di Chiara Lagani. Abbiamo incontrato Dantone durante le prove dell’opera.
Il ritorno di Ulisse in patria è un’opera stupefacente per molti motivi, primo fra tutti, forse, per il fatto di gettare le basi per il futuro del linguaggio operistico. Lei che cosa ne pensa?
«Proprio questo argomento è oggetto di discussione durante le prove che faccio con i cantanti. È mia cura spiegare non solo ogni singolo aspetto retorico, e quindi prosodico, ma anche discutere sull’importanza de Il ritorno di Ulisse in patria per il futuro del melodramma. Tra l’altro, da un punto di vista strutturale e drammaturgico considero quest’opera come la ‘vera opera’ di Monteverdi – sappiamo infatti dei dubbi di attribuzione che circondano L’incoronazione di Poppea. Il ritorno di Ulisse è un’opera che, per come è strutturata in tutti i suoi intrecci, si pone senza dubbio come pietra miliare. Il lavoro che invito a fare – e che ho fatto anche un anno fa a Firenze al Teatro della Pergola per l’allestimento firmato da Carsen – è un lavoro profondo sul recitar cantando, che in quest’opera, a trent’anni di distanza dall’Orfeo, è ancor meglio congeniato nel rapporto tra il ritmo della parola e la componente musicale, creando qualcosa di meraviglioso».
Qual è l’elemento di maggior fascinazione del recitar cantando in quest’opera?
«In ogni epoca ci sono sempre dei compositori più geniali di altri. Ecco, Monteverdi dà qui al recitar cantando una assoluta naturalezza che però è frutto del controllo. In sede performativa, la grande scommessa è riuscire a rimanere in costante equilibrio fra la recitazione pura e la musica. Se si riesce a ottenere questo si realizza uno spettacolo in cui lo spettatore si dimentica che si tratta di finzione teatrale e semplicemente riceve emozioni».
In qualche maniera, si tratta di riproporre il puro ideale teatrale di Monteverdi…
«Esattamente! Perché Monteverdi, come tutti gli autori coevi e successivi, disperatamente – ma ‘disperatamente’ lo dico io perché a me piacciono i paradossi – tenta di trasmettere il suo messaggio. Chiaramente lui non poteva scrivere tutto. Lui spera, cioè, che chi legge la sua musica colga quello che lui vuole dire. Ogni nota allungata, ad esempio, si scopre che ha un significato; ogni quinta discendente ha comunque un suo significato; ma anche una successione di semplici ottavi, legati alla parola, dovrebbero riuscire a suggerire qual è il ritmo giusto. Tutto questo è frutto, ovviamente, di ragionamento che però alla fine si libera nella massima naturalezza, rendendo giustizia a quello che il compositore, probabilmente, aveva in mente… non dobbiamo per forza avere la certezza, ma il modus operandi è fondamentale».
A proposito di linguaggi musicali… Facciamo un salto di 98 anni nella storia del melodramma e arriviamo al Serse di Händel, che offre una commistione preziosa fra tragico e comico ma cerca di modellare addirittura la struttura operistica, illuminando inediti scenari drammaturgici.
«È proprio così! Peraltro, sappiamo dalle cronache del tempo che la prima rappresentazione non fu un gran successo. Il perché è molto facile spiegarlo. Nel Serse Händel sembra quasi tentare una riforma teatrale ante litteram, eliminando i ‘da capo’ da moltissime arie, interpolate per giunta da interventi di recitativo al loro interno, imprimendo in tal modo un ritmo drammaturgico molto più agile rispetto a quello consacrato dal sistema teatrale di allora. Queste inedite soluzioni di continuità offrono pertanto una maggiore e inedita naturalezza alle varie scene. In più, la compresenza di elementi comici e seri è un fatto sicuramente suggestivo ma che non risultò completamente digesto al pubblico londinese dell’epoca. Invece è sempre bello constatare come ciò che poteva sorprendere o sconcertare un ascoltatore del Settecento, oggi venga recepito in maniera totalmente diversa».
Pochi giorni fa è uscita la sua incisione di quest’opera, con un cast di grande caratura.
«Da un lato bisogna essere fortunati, però è anche vero che la fortuna la si può costruire. Intendo dire che, in occasione delle rappresentazioni del 2019, la scelta del cast fu fatta concordemente con il Teatro Municipale Romolo Valli di Reggio Emilia. Ho lavorato con Arianna Vendittelli, Marina De Liso, Delphine Galou, Luigi De Donato, Monica Piccinini, Francesca Aspromonte e Biagio Pizzuti. Tutti quelli che parteciparono a quella produzione sono artisti perfetti per il ruolo. E, ci tengo a sottolinearlo, si tratta di un disco totalmente live».
Una live recording che segna, peraltro, il secondo progetto discografico della HDB Sonus, label nata in collaborazione con Accademia Bizantina.
«Non a caso il secondo disco ha una sorta di continuità con il primo, dedicato al Rinaldo di Händel. In effetti, il nostro intento nel futuro è quello di registrare il più possibile. La prossima opera che faremo in scena, ma che non registreremo perché la abbiamo già incisa, è il Tamerlano al Teatro Municipale di Piacenza. Però stiamo registrando molti dei nostri concerti. Abbiamo una serie di dischi che stanno per uscire, registrati in studio. Sempre con l’etichetta discografica HDB Sonus usciranno infatti in autunno i Concerti grossi op. 3 e op. 6 di Händel. Qualche mese fa ci siamo dedicati a Corelli. Alla fine di giugno incideremo invece i Concerti grossi di Geminiani. Ho voluto chiudere quindi una sorta di cerchio ideale che unisce Corelli-Geminiani-Händel. All’inizio del 2023 è prevista l’uscita del disco, che abbiamo già inciso, con la Sinfonia “Italiana” di Mendelssohn e la “Renana” di Schumann».
Il programma che presentò al Ravenna Festival lo scorso anno.
«Sì, e credo che il disco su Mendelssohn e Schumann sarà davvero notevole. Poi è stato un momento magico incidere questa musica al Teatro Dimora di Mondaino. Peraltro, sempre qui in autunno incideremo la Quinta di Beethoven e la Quarta di Schubert».
Quindi, un’apertura verso un repertorio che, per fortuna, sempre di più negli ultimi tempi viene esplorato seguendo la prassi storicamente informata.
«Assolutamente sì, ma noi lo facciamo senza negare il nostro repertorio, che rimane indubbiamente quello del Sei e Settecento. Le incursioni ottocentesche servono solo a dimostrare – se ancora ce ne fosse bisogno – che un approccio incentrato non solo sull’utilizzo di strumenti antichi ma, alla luce di esperienze musicologiche, anche attraverso una lettura stilisticamente ed esteticamente pertinente produce un risultato d’ascolto ‘diverso’ molto più vicino alle intenzioni dell’autore – che io considero le intenzioni più forti ed emozionanti. Quindi, questo approccio non vuole proporsi come una alternativa ma piuttosto vuole offrire un altro tipo di risultato – non dirò né migliore, né peggiore – che è giusto che il pubblico conosca».
E a proposito di Ravenna Festival… il 22 giugno con l’Accademia Bizantina sarà alla Basilica di Sant’Apollinare Nuovo per eseguire l’Offerta musicale di Bach.
«Questo è un progetto che segue quello su L’Arte della Fuga realizzato qualche anno fa. Il mio intento è quello di proporre una ‘nuova versione’ – sappiamo tutti che l’Offerta musicale lascia ampio spazio alle scelte strumentali e timbriche, ovviamente con il clavicembalo come punto fermo. Ho pensato di utilizzare strumenti diversi, introducendo una novità assoluta: il liuto. Vorrei travalicare l’aspetto puramente speculativo di questa partitura – che c’è, deve essere considerato, ma che il pubblico non può cogliere senza analizzare lo spartito – puntando invece tantissimo sull’aspetto espressivo. Avremo un quartetto d’archi (2 violini, viola, violoncello), il clavicembalo, il flauto e il liuto. Quest’ultimo parteciperà ai canoni. Inoltre, volendo dare all’Offerta musicale una caratteristica ‘umana’, in senso barocco, il liuto è uno strumento che offre sempre una grande suggestione timbrica. Infine, mi servirà per eseguire tutti insieme la fuga a 6 voci».
Una esaltazione delle potenzialità timbriche funzionale anche a una esaltazione della struttura retorica?
«Io pongo molto l’accento sulla struttura retorica. D’altronde, sappiamo benissimo che Bach era un appassionato di retorica e custodiva nella sua biblioteca le opere di Quintiliano. Ma per l’Offerta musicale non ci ha lasciato una struttura precisa. Io credo che l’aspetto retorico, come quello speculativo, era insito in Bach sia da un punto di vista reale, formale, che da un punto di vista puramente inconscio. Allora io stesso ho dato una struttura retorica a questo capolavoro, prevedendo come exordium la fuga a 3 voci e come epilogus la fuga a 6 voci. Nel mezzo la peroratio in affectibus, la peroratio in rebus, ecc. Lo so che molti musicisti hanno tentato di mettere in dubbio l’importanza della retorica. Certo, sono consapevole che la retorica musicale non può essere paragonata alla retorica classica, ma grazie al pensare alla musica di quest’epoca con l’ausilio della retorica – nel tentativo cioè di dare un senso strutturale – noi riusciamo ad avere delle risposte che altrimenti non potremmo ottenere».
Da settembre 2023 sarà Musical Director dell’Innsbrucker Festwochen der Alten Musik. Quali saranno le linee guida della programmazione?
«Non ci sono titoli certi, ma senz’altro quello che voglio fare, nel solco tracciato dal mio predecessore, è mettere in luce quei compositori – talvolta molti italiani – che sono stati attivi in quell’area geografica. Autori che sono passati dai territori austriaci anche solo per caso».
Posso chiederle una anticipazione per i lettori di Music Paper?
«Sì, posso fare una piccola anticipazione. Fra gli autori che vorrò valorizzare c’è Geminiano Giacomelli – presente per esempio nel Bajazet di Vivaldi con alcune arie, quelle che poi secondo me sono le migliori di tutta l’opera. Giacomelli fu autore di grande successo. Sarà molto interessante comprendere il perché di questo successo, attraverso l’esplorazione della ricezione dei suoi lavori. Il mio intento è quello di avvicinare il pubblico di oggi alla musica di allora: un legame che collega le emozioni. Perché la fonte delle emozioni non è cambiata e il modo di avvertirle non è neppure cambiato. Che cosa è cambiato allora? Noi oggi guardiamo la Storia della musica dall’alto del nostro 2022, ma se riusciamo a creare un collegamento emotivo ecco che ha senso riscoprire questi capolavori, perché ci emozionano oggi esattamente come allora».
In alto e in basso, Ottavio Dantone e l’Accademia Bizantina nel ritratto di Giulia Papetti; al centro una foto di scena del Serse (© Alfredo Anceschi)