Dopo 24 anni di assenza, “I Vespri siciliani” di Verdi tornano al Teatro alla Scala, dal 28 gennaio al 21 febbraio, in un nuovo allestimento firmato da Hugo de Ana. Sul podio Fabio Luisi alla guida di un cast capitanato da Marina Rebeka, Piero Pretti e Luca Micheletti.
Joseph Ratzinger, il Papa che pregava in musica
L’ADDIO AL PONTEFICE CHE RINGRAZIAVA IL CIELO PER AVERGLI «POSTO ACCANTO LA MUSICA quasi COME COMPAGNA DI VIAGGIO». DA APPASSIONATO AMAVA FREQUENTARE (e Organizzare) CONCERTI, DA Musicista ben più che “DILETTANTE” SUONARE IL PIANOFORTE. Musicofilo-teologo, AL DI LÀ DELLE BANALIZZAZIONI (POP oppure No?), BENEDETTO XVI lascia riflessioni fondamentali sul rapporto fra musica e Liturgia. ponendo AI SUOI SUCCESSORI UNA DOMANDA cruciale: SAPRÀ ancora PREGARE IN MUSICA LA CHIESA DEL FUTURo?
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ella e degna deve essere la musica da chiesa. Non di una bellezza fine a sé stessa, ma unita profondamente, con umiltà, alla parola divina di cui costituisce l’amplificazione espressiva. Perché questa musica è prima di tutto preghiera alimentata dalla fede, riflesso di partecipazione collettiva al rito. E come tale va considerata. E a questo scopo deve servire, con semplicità ma senza tralasciare la dignità artistica. Così, in sintesi, il pensiero di Joseph Ratzinger sulla funzione della musica nella liturgia.
Tema di cui si è occupato spesso negli anni ’60 già all’indomani del Concilio Vaticano II, cui aveva partecipato in veste di consulente, poi via via negli scritti da cardinale e nei discorsi pubblici da pontefice – quasi quarant’anni di riflessioni, alcune delle quali raccolte dallo stesso Benedetto XVI in Lodate Dio con arte: sul canto e la musica, volume edito in italiano da Marcianum Press nel 2010, a cura di Carlo Carniato, con introduzione di Riccardo Muti.
Un interesse, questo di Ratzinger, dovuto anche alla sua formazione musicale (da bambino aveva cominciato a far pratica sulla tastiera dell’harmonium di casa), al fatto di non aver mai smesso di suonare il pianoforte, di aver frequentato costantemente concerti e di avere avuto un fratello direttore (controverso, per i casi di violenze verificatesi durante il suo mandato trentennale) del coro della Cattedrale di Ratisbona per un trentennio.
Lui, che ringraziava il Cielo per avergli «posto accanto la musica quasi come compagna di viaggio che sempre mi ha offerto conforto e gioia», nelle note del prediletto Mozart avvertiva «il giubilo degli angeli per la bellezza di Dio». Non solo: Ratzinger individuava nella storia della musica sacra occidentale un filo rosso ininterrotto dal gregoriano a Bruckner e, da papa, riconosceva alla Cappella Sistina un ruolo primario nel preservare il patrimonio musicale della Chiesa di Roma e nel farlo rivivere durante le cerimonie vaticane.
Per trovare in un pontefice un simile trasporto verso la musica bisogna tornare a Pio XII, violinista dilettante, o addirittura a Clemente IX, che era stato librettista d’opera nella Roma del primo Seicento, e ancora più indietro al fiorentino Leone X, allievo del compositore fiammingo Heinrich Isaac, al servizio di suo papà Lorenzo il Magnifico.
Negli otto anni di pontificato, Benedetto XVI ha ospitato parecchi concerti in Vaticano e a Castel Gandolfo. Oltre a esserne stato spettatore attento, non ha mai mancato di commentare i pezzi ascoltati, in genere scelti da lui. Nel 2007, per esempio, arriva Mariss Jansons con l’orchestra e il coro della Radio bavarese per la Nona di Beethoven; Neeme Järvi, nel 2010, con Santa Cecilia per la cantata Cecilia, vergine romana di Arvo Pärt. Nel 2011, ancora dalla natia Baviera, gli strumentisti dell’Opera guidati da Kent Nagano.
Nel 2012 (l’anno in cui il papa entra alla Scala per ascoltare di nuovo l’ultima sinfonia di Beethoven), ecco Daniel Barenboim con la West Eastern Divan Orchestra, che fa suonare assieme, in spirito di pace, ragazzi israeliani e palestinesi, Riccardo Chailly con il Gewandhaus di Lipsia per il Lobgesang di Mendelssohn, Riccardo Muti con i complessi dell’Opera di Roma per Magnificat di Vivaldi, Stabat Mater eTe Deum di Verdi, l’anno dopo Zubin Mehta con il Maggio musicale fiorentino per l’Eroica.
Nel 2009 la sino-italiana Jin Ju colloca nell’Aula Paolo VI una sfilza di pianoforti d’epoca (da un viennese Schantz di fine Settecento a un grancoda Steninway di un secolo fa, passando anche per un Graf del 1823 e un parigino Erard di poco più giovane) su cui propone al papa-pianista composizioni d’epoche e nazioni diverse con suono autentico. Per l’ottantesimo compleanno, nel 2007 l’orchestra della Radio di Stoccarda e Gustavo Dudamel confenzionano per Benedetto XVI un programma-dono su sua richiesta da diffondere via radio e tv: due pagine di Giovanni Gabrieli, la sinfonia Dal nuovo mondo di Dvořák e il Concerto per violino K. 216 di Mozart, solista Hilary Hahn. Nel dvd ricavato da Deutsche Grammophon il volto del papa benedicente compare in copertina.
Comunque, più del musicofilo, nei saggi sulla musica presenti nella prima parte di Lodate Dio con arte a esprimersi è il teologo e il liturgista che, nell’applicazione pratica degli indirizzi conciliari in fatto di canto sacro, coglie una inspiegabile banalizzazione populistica a causa della quale la Chiesa rischia la sudditanza a estetiche commerciali contrarie al psallite sapienter, al cantare con arte, in maniera ispirata, cui esorta il Salmo 47.
«La liturgia richiede la trasposizione artistica, proveniente della spirito della fede, dalla musica del cosmo nella musica umana a glorificazione del Verbo incarnato», spiega Ratzinger. «Tale musica segue una legge più rigida che non la musica quotidiana, è vincolata alla Parola e alla guida dello Spirito».
Ratzinger riconosce alla musica una centralità secolare nel corpo della preghiera cristiana. Perciò non è pensabile che se ne possa fare a meno, perlomeno nelle liturgie più solenni. Cantare amantis est, affermava Sant’Agostino, intendendo che il cantare proviene dall’amore e, dunque, è l’amore a creare il canto. D’altronde, sottolinea il Ratzinger esegeta delle Sacre Scritture, ogniqualvolta nella Bibbia l’uomo entra in contatto con Dio, il semplice parlare non basta più: «è lo Spirito Santo che insegna a cantare, dapprima a Davide e poi, tramite lui, a Israele e alla Chiesa, anzi, il cantare è in se stesso, in quanto superamento del discorso comune, un evento pneumatico».
Nella Bibbia si canta per esprimere tribolazione o gioia in direzione del Cielo; e il Cantico dei Cantici intona addirittura un amore assolutamente umano, sensualissimo. Anche San Benedetto, nella sua Regola, si soffermava sulla congiunzione spirituale tra uomo e Dio resa possibile dalla musica. Coram angelis psallam tibi, Domine. Così ai suoi monaci, prendendo spunto da un versetto dei Salmi: di fronte agli angeli voglio cantarti, o Dio.
Un motto di cui Ratzinger evidenzia due punti. Il primo: l’uomo canta non per sé stesso, ma rivolgendosi a Dio, quindi prega con il mezzo della musica. Il secondo: chi canta non lo fa da solo, ma alla presenza degli angeli, insieme a loro; per ascoltarli, accordandosi con le loro voci, l’uomo che prega cantando deve aprire l’orecchio del cuore.
Una rivelazione del genere Benedetto XVI confessò d’averla avuta da adolescente. Era il 17 gennaio 2009 e nella Cappella Sistina era stata appena eseguita la Messa in do minore di Mozart per festeggiare l’ottantacinquesimo compleanno di suo fratello Georg. Nel saluto agli intervenuti, il papa rammentò di quando, nel 1941, si era recato con lui al Festival di Salisburgo per ascoltare proprio quella Messa nella basilica abbaziale di San Pietro.
«Anche se allora ero ancora un ragazzino sempliciotto», disse, «ho compreso che avevamo vissuto qualcosa di più di un concerto: ma che era stata musica in preghiera, ufficio divino, in cui avevamo potuto sfiorare qualcosa della magnificenza e della bellezza di Dio ed eravamo stati toccati da Dio stesso».
Tuttavia, la questione che a Ratzinger premeva maggiormente era d’ordine pratico. Ossia come vada declinato il canto nella liturgia postconciliare che nella prassi, man mano, ha fatto piazza pulita di secoli di musica sacra sostituendola con melodie di matrice pop rivolte al pieno coinvolgimento emotivo dei fedeli e alla loro partecipazione attiva in veste di esecutori. Riguardo a questo, si chiede Ratzinger, è davvero necessario che tale partecipazione debba riversarsi in attività esteriori? E allora lo stare in silenzio, in ascolto, va considerato solo come qualcosa di passivo? E il pregare tra sé, il percepire con i sensi e lo spirito, il commuoversi?
Ciò che molti valutano fra i tratti più progressisti del Concilio, Ratzinger lo giudica rinunciatario, poiché, afferma, nel tentativo di trovare un equilibrio fra l’ossequio alla tradizione e la necessità nuova di forgiare una liturgia semplice la Chiesa ha imboccato la strada di un pragmatismo pastorale che ha smarrito, assieme alla memoria, il sentimento della bellezza.
Nelle funzioni, infatti, si è scelto di impiegare musica d’uso ritenuta più coinvolgente per i fedeli, mentre il repertorio sacro del passato è stato ceduto volentieri alle programmazioni concertistiche. Eppure i «freddi brividi che incute l’ormai opaca liturgia postconciliare, o semplicemente la noia che essa suscita con il suo gusto» non sono frutti autentici del Concilio, la cui volontà non era affatto quella di sbaraccare la tradizione, ma di lasciare ampia libertà nelle scelte musicali a ogni comunità ecclesiale.
Ciononostante Ratzinger si rendeva ben conto della difficoltà di far convivere la musica liturgica d’arte fiorita per più d’un millennio nel Vecchio Continente con l’universalismo della Chiesa globale in marcia verso il Duemila. Anche perché la musica classica è ormai ghettizzata ovunque: pochi la capiscono, a pochissimi interessa, tanto meno alla gran massa dei fedeli, a cui per giunta pare uno degli emblemi di potere che contraddistinguono l’istituzione ecclesiastica e le sue gerarchie.
Perdipiù, nota Ratzinger, nell’ultimo secolo la musica d’arte ha preso una strada di sperimentazione autoreferenziale che l’ha portata sia a distanziarsi dal pubblico sia a disinteressarsi della fede, mentre la Chiesa, da parte sua, si è totalmente distaccata dalla creatività moderna, con cui non ha neppure tentato un dialogo timido. Ecco allora che lo spazio lasciato vuoto nelle chiese dalla musica d’arte, quella démodé del passato e quella ermetica del presente, è stato occupato dalla musica leggera.
Sostituendo cori e orchestre con ensemble moderni, scrive Ratzinger, la Chiesa postconciliare ha stabilito che nei riti l’attualità richieda di manifestarsi per mezzo di espressioni artistiche attuali, comprensibili per chiunque, adatte alla sensibilità delle masse globalizzate. Ma si tratta, appunto, di una prassi scaturita da una certa interpretazione dello spirito del Concilio, non da sue prescrizioni.
Eppure, in questo modo, nota Ratzinger, la Chiesa assume in sé il pensiero funzionalistico del mondo contemporaneo, quello che spezza i legami con la storia e mira soltanto a realizzare quanto reputa utile e pratico nell’immediato: l’arte, così, viene sostituita da ciò che è calcolabile, «sottoposta alla legalità del mercato e da questa soppressa in quanto arte».
Ecco allora perché né il pop né il rock stanno bene nella liturgia (ma nemmeno «certi esangui canti catechetici» assai diffusi le si addicono). Infatti – e qui il futuro papa che tutti diranno conservatore maneggia con audacia i grimaldelli interpretativi forniti dalla critica marxista – «il pop viene fabbricato industrialmente con produzione di massa, come merce tecnica, in un sistema che è, come si è espresso Paul Hindemith, totalmente inumano e dittatoriale».
Musica che celebra la banalità, concepita per far soldi, cui manca il coraggio dell’impegno e della contraddizione. Il rock, poi, esprime «passioni elementari» che liberano «le persone da se stesse nell’esperienza della massa e dello sconvolgimento mediante il ritmo, il frastuono, gli effetti luminosi».
Che la liturgia debba essere per tutti, semplice, inclusiva, non vuol dire che vada banalizzata l’esperienza della preghiera. «La Chiesa non può appagarsi di ciò che è ordinario e utile; dev’essere ambiziosa; dev’essere una casa del bello». La scelta di volgersi a una musica utilitaristica, ordinaria, è una sconfitta storica che condanna alla marginalità spirituale e culturale la Chiesa stessa.
«Una chiesa che faccia soltanto della musica d’uso (Gebrauchsmusik) cade nell’utile (Unbrauchbaren) e diviene essa stessa inutile». Pertanto «il problema dell’adatto dev’essere anche il problema del degno».
La musica liturgica, nella visione di Ratzinger, deve restare fedele all’originaria vocazione edificante e devozionale indicata da Sant’Agostino e San Tommaso, ancorata alla parola sacra e radicata nella storia (intesa tanto come tradizione quanto come divenire). Deve, insomma, integrare i sensi nello spirito, l’intuizione al suono, affinché per l’uomo l’esperienza musicale diventi ascesi e purificazione.
«Accogliendo in sé i sensi, lo spirito non si umilia, bensì giunge all’intera ricchezza della creazione. E i sensi non perdono la loro realtà quando vengono attraversati dallo spirito, bensì solo in tal modo partecipano alla sua infinitezza. Ma non dimentichiamolo: questa musica non è opera di un istante, ma partecipazione a una storia. Non è creata da un singolo, ma solo nella collaborazione».
Queste riflessioni di Ratzinger lasciano in eredità ai sacerdoti e ai musicisti lo scandalo di un interrogativo che le percorre sottotraccia: saprà ancora pregare in musica la Chiesa del futuro?
E se sì, seguiterà ad accodarsi alle mode commerciali, confermando di fatto l’attuale, innegabile irrilevanza spirituale ed estetica dell’elemento musicale nella liturgia? Oppure vorrà provare a ristabilire un colloquio con i compositori così da trovare, magari, un terreno d’intesa comune, funzionale al rito non meno che propizio alla ricerca creativa, allo stesso modo con cui tenta di farlo, pur procedendo a tentoni, con architetti e artisti visivi?
Foto: dall’alto, Benedetto XVI tra la folla con Georg Gänswein, prefetto della Casa pontificia e suo segretario particolare sino alla morte; il celebre scatto che ritrae Papa Ratzinger al pianoforte durante una vacanza a Les Combes, in Valle d’Aosta, mentre suona una partitura di Johann Sebastian Bach; con Gustavo Dudamel e Hilary Hahn in occasione del concerto in Vaticano per i suoi 80 anni nel 2007, con il fratello musicista Georg Ratzinger che fu direttore dal 1964 al 1994 del Coro della cattedrale di Ratisbona, il Regensburger Domspatzen; con Papa Francesco, suo successore.