Dopo 24 anni di assenza, “I Vespri siciliani” di Verdi tornano al Teatro alla Scala, dal 28 gennaio al 21 febbraio, in un nuovo allestimento firmato da Hugo de Ana. Sul podio Fabio Luisi alla guida di un cast capitanato da Marina Rebeka, Piero Pretti e Luca Micheletti.
Franco Fayenz il grande critico jazz che amava la classica
È SCOMPARSO il 26 ottobre Alla vigilia dei suoi 92 anni IL CRITICO E GIORNALISTA CHE HA FATTO LA STORIA DELLA DIVULGAZIONE DEL JAZZ IN ITALIA. L’omaggio e il ricordo (molto personalI) DI MUSIC PAPER dedicati UNA FIGURA UNICA, CRITICO MILITANTE E “PERIPATETICO” DEL JAZZ
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e n’è andato un pezzo unico, con i suoi pregi e difetti. In Italia Franco Fayenz (Padova, 18 novembre 1930 – 26 ottobre 2022) ha fatto la storia della divulgazione del jazz. Una specie di Piero Angela del verbo swing. È una grave perdita, la sua, anche perché tutti noi, colleghi e amici, pensavamo che fosse eterno. Persino nel suo aspetto da capo indiano burbero – il volto scolpito; la chioma folta e ribelle, negli ultimi tempi diventata di color bianco argentato; gli occhi fiammeggianti, che all’improvviso viravano verso un’espressione ironica – c’era qualcosa di totemico, che pareva destinato a sfuggire alle ingiurie del tempo. Invece lui ci ha lasciati il 26 ottobre, in una tiepida giornata autunnale, poco prima del suo novantaduesimo compleanno (era nato il 18 novembre del 1930). Una ricorrenza che avrebbe festeggiato a Casa Verdi, l’istituto di riposo di Milano per cantanti, artisti e protagonisti del settore musicale, dove nell’ultimo periodo della sua esistenza si era stabilito.
Permettetemi un ricordo personale. A Franco ero legato non solo per il jazz e per le discussioni e le chiacchiere ai concerti o in occasione dei festival. Ma gli volevo bene anche perché fu lui a presentarmi a Paola Molfino, oggi direttrice di Music Paper ma all’epoca caporedattrice e anima di Amadeus. Su sua segnalazione, lei ebbe la bontà di chiamarmi a collaborare prima per la collana monografica Amadeus Profili e in seconda battuta per la rivista, dove ho avuto la responsabilità onerosa di occuparmi della rubrica dedicata al jazz al posto di Fayenz, che nel frattempo aveva dato forfait.
C’è poi un altro episodio che tengo a rievocare e che fa luce sul personaggio (eh sì, perché Franco era prima di tutto un “personaggio”). Quando lo conoscevo solo di vista, recensendo uno dei suoi libri – credo che fosse Jazz domani, un saggio pubblicato da Einaudi nel 1990 – lo definii, con irriverenza giovanile, un «critico peripatetico»: avevo notato che, ascoltando i musicisti suonare nei club, spesso e volentieri si alzava e cominciava a passeggiare come se questa attività, lungi dal distrarlo, lo aiutasse a concentrarsi. Quando poi diventammo amici, lui – che, dietro la maschera severa, aveva senso dell’umorismo – mi confessò che non si era affatto offeso per quella definizione, anzi che gli piaceva molto e gli calzava a pennello.
Nonostante fosse ormai milanese di adozione, Fayenz era orgogliosamente padovano per nascita e formazione. Non a caso, aveva mantenuto il vezzo di parlare in dialetto. Del resto nella città veneta lui – discendente del leggendario scrittore Emilio Salgari – era cresciuto e si era laureato in Giurisprudenza, ma coltivando sempre la musica.
E questa era diventata in breve la sua unica attività: una vera e propria militanza, visto che scriveva per quotidiani come Il Giornale, Il Foglio e Il Sole 24 Ore, pubblicava e curava libri per le maggiori case editrici italiane (opere fondamentali come Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana di Arrigo Polillo, lo storico direttore di Musica Jazz, e La musica è la mia donna, monumentale autobiografia di Duke Ellington), lavorava per la Rai ed era stato anche consulente, dal 1998 al 2002, del ministero per i beni e le attività culturali. E in questo era diverso da tanti colleghi, che vivevano di altre professioni e che coltivavano l’amore per lo swing in parallelo.
Da lì in avanti, la sua fu un’irresistibile ascesa, come ricorda Luca Conti, attuale direttore di Musica Jazz, cui Franco ha anche lasciato parte della sua immensa collezione di Lp e cd. «Aveva cominciato a scrivere per noi nel lontano 1952, a soli 22 anni, e ha continuato a collaborare con la rivista fino al 2018. Un arco di tempo lunghissimo, pieno zeppo di saggi, articoli e interviste cui si sono sempre affiancate le attività non solo di giornalista, ma anche di manager, organizzatore e autore di libri su cui si sono formate almeno un paio di generazioni».
Un’altra caratteristica – o, meglio, una peculiarità – di Fayenz era la curiosità e la conoscenza della musica classica e di quella contemporanea, che gli permetteva di affrontare da una prospettiva più ampia e aperta il jazz. Un aneddoto tra i tanti che amava raccontare? Divise il tavolo di un’osteria bolognese con un giovanissimo Keith Jarrett, il quale – non ancora famoso – gli confidò: «Sai, ho una paura di quando sarò celebre, se mai lo sarò, perché potrei perdere il senso delle proporzioni».
Una notazione finale. Fayenz, gran bel ragazzo, era diventato un uomo fascinoso, amante del gentil sesso e molto conteso tra le signore di ogni ambiente ed età. Oggi a dargli l’ultimo saluto c’è la figlia Claudia, giornalista Rai, oltre che appassionata di musica: «Penso che il merito più grande di papà sia stato quello di rendere facile una musica che non sempre lo era. E l’insegnamento che ha trasmesso a me è che la cosa più difficile è essere semplici». E noi ci uniamo a lei.
Buon viaggio, Franco. Ci vediamo nella prossima vita.
Nella foto cover © Roberto Masotti /Lelli e Masotti Archivio: è il 1974, Franco Fayenz appare in uno degli scatti del servizio fotografico realizzato dal grande fotografo Roberto Masotti (1947 – 2022) all’artista Guy Harloff a Chioggia, dove era attraccata la barca del pittore “Le Devenir”. Lì viveva l’artista in compagnia della compagna, ex fotomodella, Maggie Ray. Fayenz è con lei nella foto. Un grande grazie a Silvia Lelli per la concessione alla pubblicazione dell’immagine.