Dopo 24 anni di assenza, “I Vespri siciliani” di Verdi tornano al Teatro alla Scala, dal 28 gennaio al 21 febbraio, in un nuovo allestimento firmato da Hugo de Ana. Sul podio Fabio Luisi alla guida di un cast capitanato da Marina Rebeka, Piero Pretti e Luca Micheletti.
Fischi e fiaschi alla Scala
I
fischi in teatro non sono tutti uguali: ci sono quelli premeditati, quelli meritati, quelli che consumano piccole vendette, quelli indirizzati ai cantanti o rivolti ai registi. Ma, esaminando sin dai tempi d’oro della lirica la storia delle contestazioni al Teatro alla Scala (dove i dissensi hanno da sempre fatto più rumore dei successi), è possibile trovare un filo rosso che le accomuni. Innanzitutto, non si ricordano “buuate” clamorose in opere del repertorio tedesco, da Wagner a Richard Strauss, forse perché in pochi avevano (e hanno ancora) la preparazione adeguata per giudicare.
Diversa la sorte quando sono stati messi in scena titoli di Donizetti, Verdi, Puccini. Oggi il pubblico più melomane vive nel ricordo dei grandi miti del passato, ma sembra dimenticare che tanti artisti star di allora non ebbero vita facile nel teatro milanese. Pensiamo alla Traviata di Luchino Visconti, ora da tutti considerata un autentico capolavoro teatrale. Eppure sia il regista sia Maria Callas scatenarono alla Prima del 28 maggio 1955 una reazione scomposta degli spettatori. Il motivo? In una scena la divina lanciava via le scarpe. «La Callas l’è diventà el circo Togni» fu l’insulto in milanese più educato. E sul palco piovvero persino dei ravanelli, che il soprano, molto miope, scambiò per fiori.
La stessa sorte capitò nel 1963 all’emergente Mirella Freni, sempre nella stessa opera verdiana con la regia di Franco Zeffirelli e la direzione di Herbert von Karajan. Prima della cabaletta «Sempre libera», la cantante modenese eseguì in modo stiracchiato i due re bemolle del «Gioir»: fischi e buu a lei rivolti, col soprano stizzito che uscì in proscenio con le mani sui fianchi a prendersi l’insuccesso. Ma non vennero risparmiate neppure Renata Scotto nei Vespri siciliani del 1970, Monserrat Caballè nella donizettiana Anna Bolena del 1982 e Luciano Pavarotti in Lucia di Lammermoor nel 1983 (mostrò un certo affaticamento negli acuti, beccandosi lazzi e fischi, con tutte le Tv a parlare del fiasco del tenorone nazionale).
Ma l’episodio più folcloristico accadde nel 1989. Katia Ricciarelli si cimentava in uno dei suoi cavalli di battaglia, la verdiana Luisa Miller. I loggionisti non l’amavano granché per via delle sue numerose comparse in tv, al punto da attribuirle il soprannome di Baudova, visto il suo matrimonio con Pippo Baudo. Le cronache del tempo raccontano non solo di un flop ma di una sfida tra il soprano e il loggione (chi sedeva nelle prime file ricorda un «Che Dio vi maledica» sussurrato dalla cantante) e di Baudo che quasi arrivò alle mani con uno dei contestatori.
E negli ultimi decenni? Fino alle sovrintendenze Lissner e Pereira, queste espressioni di malcontento da parte del pubblico più melomane si sono ripetuti spesso e, al di là del folclore e della notizia scandalistica, hanno sollevato interrogativi serissimi: l’opera di casa nostra è in crisi? Non ci sono più gli artisti di una volta? E pensiamo anche all’eterna diatriba tra regie tradizionali e regie che attualizzano le opere: spesso queste ultime venivano bocciate a priori da passatisti e custodi della memoria. Oggi, con il nuovo numero uno Dominique Meyer, con la pandemia che ha bloccato molti spettacoli e ha fatto rinascere la voglia di teatro, il fenomeno resta, ma si verifica in casi più isolati.
Va detto che il pubblico del Piermarini (soprattutto quello che popola il loggione) è tuttora molto esigente: spettacoli che in altri teatri verrebbero applauditi senza riserve, nel tempio della lirica non “passano”. E quando vanno in scena i capolavori di cui molti conoscono ogni nota e ogni parola del libretto, tutti si sentono commissari tecnici della Nazionale, pretendono di saperne di più e di dire la loro. Inoltre, anche senza volerlo, gioca un ruolo importante la prevenzione. Se il direttore è straniero, la domanda è: cosa ne potrà mai capire? Ma quanti italiani possono affrontare il grande repertorio di casa nostra? Muti non dirige più alla Scala. Che altro offre il piatto? Chailly, Gatti, Mariotti, e ora forse anche Speranza Scappucci, molto applaudita neI Capuleti e i Montecchi di Bellini e nei concerti sinfonici con la Filarmonica.
Questo conta, e conta anche il fattore nostalgia: gli appassionati hanno tutti i dischi di Callas, Tebaldi, Bergonzi, e il confronto spesso è improponibile. Hanno fatto molto scrivere e discutere i flop in Aida di Roberto Alagna, che abbandonò il palco nella seconda recita dopo i fischi alla prima (famosissima) aria, e all’Alfredo Germont di Piotr Beczała, che sui social annunciò di non voler più tornare a Milano, salvo poi ricredersi. Ma mugugni e mormorii spesso non risparmiano nessuno. Per molti frequentatori scaligeri, il problema è che non è cresciuta, ad esempio, una nuova leva di cantanti verdiani (italiani e non). Dunque, ritengono che certe opere o vengono allestite ad altissimo livello, oppure è meglio scordarsele.
Ma clamoroso fu anche il caso del mezzosoprano Cecilia Bartoli, popstar dell’opera amata in tutto il mondo, vittima però di pregiudizi alla Scala. Nel 2012 tornò in teatro dopo 19 anni di assenza dal Piermarini per l’apertura della stagione della Filarmonica, con Daniel Barenboim sul podio. A lungo attesa e invocata, riscosse applausi nella prima parte del recital, dedicata al repertorio barocco, Händel in testa, di cui Bartoli è regina indiscussa, seguito dall’Exultate, jubilate di Mozart. Ma fu dopo l’intervallo che l’astro cominciò a vacillare: fatali furono i due brani di Rossini (ecco, ancora il repertorio italiano) tratti da Otello e Cenerentola. Dal loggione cominciarono a piovere i buu. E arrivarono anche gli insulti: «Torna a casa!», «Povero Rossini». Risultato? Nel 2015 la diva disertò all’ultimo momento un concerto con l’ensemble dei Barocchisti «per un forte raffreddore». Malattia tattica? Certo è che da allora non mise più piede al Piermarini.
C’è sicuramente un problema di ricambio, ma non solo per i cantanti. Mentre all’estero si è fatta strada una nuova generazione di registi capaci di innovare senza stravolgere, in Italia l’elenco è corto. Se Pizzi viene considerato “vecchio”, quanti nomi italiani sono pronti a sostituirlo? Damiano Michieletto, Davide Livermore, Mario Martone. Punto. E anche qui le cose non vanno meglio, come dimostrano le contestazioni al Macbeth dell’ultimo 7 dicembre: lo spettacolo-videogame di Livermore non è piaciuto a una parte del pubblico della Prima, perché considerato troppo televisivo, anche se nelle repliche successive ha avuto successo.
Ecco: Sant’Ambrogio alla Scala scatena la smania di protagonismo e l’ego ipertrofico di certi spettatori, che farebbero di tutto per far parlare di sé. La molla fondamentale ora è questa, forse anche perché negli ultimi anni il ruolo del loggione, con il ricambio generazionale e la presenza di molti spettatori stranieri, è cambiato. Un tempo il loro parere aveva un peso più importante sui cantanti, tanto che molti artisti acclamati all’estero si rifiutavano di cantare alla Scala – che rappresentava un punto di arrivo e consolidamento della propria carriera – per timore del fiasco. Insomma, i fischi, pur essendo fisiologici almeno in Italia, il Paese dell’opera, sembrano ormai solo opera di contestatori isolati, sempre gli stessi: spesso ce n’è uno solo a dettar legge, anche se non rappresenta affatto la reazione dell’intero pubblico. Almeno, un risultato (positivo o segno di un crescente appiattimento del pubblico?) lo si è ottenuto: pare finita l’epoca delle spedizioni punitive, dei partiti schierati pro o contro un cantante, della tolleranza zero, degli avvertimenti minacciosi che arrivavano ancor prima del debutto.
Certo, fare spettacoli oggi è più difficile: misurarsi con registi e artisti che hanno fatto la storia del teatro è complicato, perché molte intuizioni sono già state espresse e mostrate. Ma l’opera non è un museo e il suo scopo è quello di confrontarsi con il mondo di oggi, coi grandi temi contemporanei. Ben venga allora l’innovazione, purché non si trasformi in un voler stupire fine a sé stesso.
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala